LP/CD digipack
Febbraio 2017
Tiratura CD: 500 copie
Tiratura LP: 500 copie (vinile 180 grammi)
–COPRODUZIONE–
€10.00
1 disponibili
“Second Skin” è il sesto album dei CUT ed è il disco con cui la storica formazione
bolognese festeggia più di venti anni di un percorso musicale che li ha visti attraversare “ere” diverse del suono alternativo e indipendente, sempre “on the wrong side of the
road”.
Per questo motivo, nella fase di realizzazione dell’album, i CUT hanno voluto coinvolgere
alcuni dei loro più stretti collaboratori e amici, molti dei quali hanno preso parte alla fase di
costruzione dei brani, fornendo un contributo essenziale alla varietà di atmosfere e
suggestioni che caratterizzano “Second Skin”.
“Second Skin”
Il titolo ha un doppio valore evocativo:
può essere letto come una metafora del vissuto della band, oramai divenuta una seconda
pelle per i propri membri, oppure attraverso le tematiche affrontate nei testi quali
l’ossessività e la dipendenza affettiva che rendono difficoltoso l’affrancarsi da stati d’animo
legati a rapporti interpersonali passati.
Un’ossessione che ti avvolge come una “seconda pelle”, una prigione, spesso invisibile agli
altri, dalla quale non ci si riesce a liberare.
“Second Skin” vede la partecipazione di numerosi ospiti tra cui:
Mike Watt (Minutemen, fIREHOSE, Iggy & The Stooges, Il Sogno Del Marinaio…),
Stefano Pilia (Rokia Traoré band, Afterhours, Massimo Volume, InZaire, Il Sogno Del
Marinaio, Cagna Schiumante…), Sergio Carlini (Three Second Kiss, Serra/Carlini, Jowjo),
Andrea Rovacchi (Julie’s Haircut), Francesco Salomone (Forty Winks, Qlowski),
Francesco Bucci, Paolo Raineri (Ottone Pesante, Junkfood).
Per l’artwork è stato scelto “Nel Buio”, un quadro dell’artista modenese Simone Fazio.
Un particolare di quest’opera era già stato utilizzato per la release online del brano “Take
It Back to the Start”.
“Second Skin” è frutto di una co-produzione Area Pirata, Dischi Bervisti, Antipop (etichetta di Liverpool già distributrice dei dischi dei CUT in UK) e Bare Bones Productions.
La produzione artistica è stata affidata a Bruno Germano già collaboratore storico della
band oltre ad aver militato nei Settlefish ed avere prodotto tra gli altri, Fuzz Orchestra e
Iosonouncane.
Germano è presente nel disco anche in veste di musicista e coautore della title track. In numerosi brani figura anche Francesco Bolognini il primo batterista della band ad
ulteriore testimonianza della volontà dei CUT di raccogliere intorno a “Second Skin” gli
amici ed i collaboratori di una vita.
CUT
Ferruccio Quercetti .- vocals, guitar
Carlo Masu -. guitar, vocals
Gaetano Maria Di Giacinto – drums, percussion
Tracklist:
01. CUT – Shot Dead 03:29
02. CUT – You Killed Me First 02:19
03. CUT – Too Late 02:53
04. CUT – Parasite 02:00
05. CUT – Automatic Heart (Tacoma Time Travel) 02:24
06. CUT – Take It Back To The Start 04:12
07. CUT – Second Skin 03:17
08. CUT – Holy War 01:59
09. CUT – The One Who Waits 02:40
10. CUT – Paralysed 03:09
11. CUT – Catch My Fall 03:25
12. CUT – Crash And Burn 03:47
Hai voglia a cercare le parole per introdurre un nuovo disco dei Cut.
Cosa dire, che non sia già stato detto, di una band che ha fatto la storia dell’underground italiano, che suona da vent’anni e che ci ha regalato cinque album che abbiamo negli anni consumato dagli ascolti?
Cercare nuovi aggettivi per esaltare una formazione con la quale sono (siamo) cresciuti a questo punto appare inutile e allora per una volta non cercherò di arrampicarmi sugli specchi per inventarmi un nuovo incipit e mi dedicherò direttamente a questo album che, in poco più di trentacinque minuti, dimostra come il terzetto bolognese nonostante gli anni passino non sembra voler perdere nulla della sua brillantezza.
Mi levo subito il pensiero e butto lì la mia bestialità; in due pezzi come Shot Dead e Parasite, arricchiti come sono dai fiati, mi è sembrato (lontanamente) di sentire echi di Rocket From The Crypt! Ho detto la mia? Chissà magari leggendo questi righe sia gli autori che gli ascoltatori potrebbero deridermi o confermare la mia sensazione, non vi nascondo che sarei curioso di saperlo.
Bene detto questo tento di tornare nei binari della “normalità” e cito gli altri brani che mi hanno maggiormente colpito fra quelli compresi in scaletta; il primo è Too Late con il suo hardcore nervoso e tribale alla Jesus Lizard, seguono poi Take It Back To The Star un brano oscuro scarno ma sinuoso che sa un po’ di Stooges (dimmici niente!), Second Skin che ricorda i Sonic Youth quand’erano al massimo della forma, Catch My Fall dove sembra di ascoltare una versione meno pop degli Swervedriver per chiudere con il punk-blues ultra incisivo di Crash And Burn. Alcuni giorni fa, un po’ per gioco un po’ per noia, ho stilato su facebook la lista dei miei dieci album italiani preferiti di ogni tempo, nei commenti che il mio post ha ricevuto uno mi chiedeva perché non vi avessi incluso Operation Manitoba dei Cut, effettivamente non lo avevo fatto e subito ho capito come dieci titoli fossero davvero pochi.
Ebbene per tutti quanti abbiano ascoltato (e ancora ascoltino) un tale capolavoro vi dirò che questo Second Skin è all’incirca su quel livello, un livello altissimo.
Voto 8/10
Luca Calcagno – IYE.ezine 11/02/2017
Sesto album (oltre ad uno split e un live) per il trio bolognese. Esplosivo, travolgente, devastante, dal vivo allo stesso modo che su disco.
In questo ritorno in studio di registrazione propone un sound, come sempre abrasivo, elettrico ma più curato, che conserva le abituali spigolosità ma le avvolge in arrangiamenti meno ruvidi.
La sezione fiati che colora di soul alcuni brani è un tocco geniale e delizioso, un gusto funk che permea molti brani sposta il groove da un approccio direttamente punk e crea un ibrido esaltante.
“Second skin” attinge dalla black music, dal punk, dalle prime espressioni selvagge del rock n roll, cita i Sonics, puzza di New York e di CBGB’s.
Come sempre un grandissimo album che si avvale di una serie di preziosi collaboratori, primo tra tutti Mike Watt ex Minutemen e Stooges.
Tony Face – Blog 28/02/2017
Che bello ritrovare i CUT ancora sulla breccia! Sono passati vent’anni da quando si sono formati e diciannove da quel folgorante esordio che fu “Operation manitoba” al quale sono seguiti, tra vari cambi di formazione e periodi di silenzio, altri cinque album. In questi due decenni non hanno sbagliato un colpo e hanno mantenuto sempre la barra dritta restando coerenti e fedeli in maniera integerrima ad un garage blues sempre condensato di punk, noise e soprattutto di tanto, tantissimo rock’n’roll.
Questa loro etica ha fatto guadagnare al gruppo bolognese stima e autorevolezza da parte di pubblico e addetti ai lavori sia italiani che del mondo anglosassone, tanto è vero che l’Antipop è un’etichetta inglese e che il penultimo album “Annihilation road” è stato registrato a New York, presso gli studi di Matt Verta-Ray, l’impareggiabile spalla di Jon Spencer negli Heavy Trash. Nel corso degli anni i Cut hanno anche tentato l’esperienza di discografici co-fondando con Andrea Rovacchi la Gamma Pop, un’etichetta importante per il garage rock italiani degli anni ’90.
In questo nuovo disco troviamo i due membri storici, Ferruccio Quercetti e Carlo Masu voci e chitarre, e il batterista Gaetano Di Giacinto ma sono stati coinvolti tanti amici ed ex membri come il primo batterista Francesco Bolognini oltre ad ospiti illustri come Mike Watt (Minutemen, fIREHOSE, Iggy & The Stooges), Stefano Pilia (Massimo Volume, Afterhours), Sergio Carlini (Three Second Kiss), lo stesso Rovacchi e tanti altri.
“Second skin” ha un tiro garage e graffiante, seppure traspare in quasi tutte le tracce un senso di malinconia.
Il lavoro ha anche dei momenti riepilogativi come “Too late“, nella quale il trio rispolvera l’energia r’n’r che deve molto alla Blues Explosion e in “Parasite” dove l’utilizzo di fiati da un tocco di soul ad un brano in perenne accelerazione, come se Mick Collins avesse alle spalle la sezione fiati di James Brown. In “You killed me first“, il trio riesce a mettere d’accordo l’egocentrismo degli The (International) Noise of Conspirancy con l’irruenza della Jim Jones Revue. Se “The one who waits” è graffiante “Paralysed” è vibrante e intrisa di schegge blues tronfie e incostanti, dirette verso un r’n’r sbilenco. Insomma “Second skin” è già nella mia playlist del 2017!
Vittorio Lanutti – Freak Out 27/02/2017
Il sesto album della band bolognese Cut è un trionfo di energia e influenze variegate, rese particolarmente efficaci dalla presenza di collaboratori di lunga data e amici dei membri del gruppo. Le suggestioni sognanti che emana lo rendono uno dei capitoli più godibili della loro intera discografia. “Second Skin” è un titolo ambivalente, che percorre due strade entrambi compresenti nel disco: la seconda pelle di un gruppo che sa reinventarsi e rigenerarsi di anno in anno, una seconda pelle che ciascun elemento sa vestire con sincerità e nonchalance, ma anche la difficoltà ad affrancarsi da ossessioni, dipendenze, legami passati mai cancellati del tutto. Questa “seconda pelle” è anche un percorso catartico che inizia con il grido punk liberatorio di “Shot Dead”, dove le chitarre e la performance vocale la fanno da padrona. La tensione soffocata cela tanta carica ma anche tanta voglia di sfogarsi, di buttar fuori la negatività, di dar vita a un nuovo ciclo artistico. Le bellissime “You Killed Me First” e “Parasite”, aggressive quanto basta nell’approccio vocale e nel basso e batteria avvolgenti, sono intervallate da “Too Late”, altrettanto forte, ma più riflessiva e orecchiabile. Il livello si mantiene alto grazie alle tante variazioni interne, costituite da seconde voci, cambiamenti ritmici, arrangiamenti diversificati ed esplosioni improvvise, e l’influenza degli Stooges è lampante.
Con la coraggiosa e intraprendente “Automatic Heart (Tacoma Time Travel)” si aggiungono nuovi frammenti al puzzle: sperimentazione e gioco si fondono insieme, mostrando un nuovo lato della (rinnovata) vita artistica dei Cut. Il gruppo di amici se la spassa in studio e crea nuove sonorità basate su impressioni, riverberi, voci che si fondono e confondono, come avviene nel finale del brano: che colpo! Il livello non si abbassa: il rock classico, torrido e fumoso, è a volte integrato nella ballata, come avviene per la romantica e seducente “Take It Back to the Start”, dove la voce è strepitosa, con la chitarra che sembra uscir fuori dalle paludi del Mississippi; altre volte portato all’assurdo con la parentesi Butthole Surfers di “Second Skin” – un piccolo gioiello – e la seriosa “Holy War”, che risente di qualcosa degli R.E.M. Ma è con “The One Who Waits” che troviamo l’ennesima variazione stilistica del disco: i Japandroids si incrociano con i Parquet Courts in un brano rock pienamente indie, da “nuovo millennio”. E quanto è cantabile questo pezzo! I Cut hanno decisamente tante pelli, e come i serpenti sanno indossarle senza farsi notare, mimetizzandosi meravigliosamente.
Il finale è radioso: “Paralysed” è inquietante, sinistra, con le sue dissonanze cervellotiche e una voce da oltretomba; “Catch My Fall” è un’altra parentesi pop riuscitissima, dove l’approccio vocale misurato si confronta con una chitarra docile e una batteria minimale; la conclusiva “Crash and Burn” dà la parte del protagonista al basso, e la chitarra “wah-wah” si incastra perfettamente con le linee melodiche e le parole. I cori inaspettati aggiungono l’ennesimo tassello imprevedibile a un disco che sembra non esaurire mai le sue potenzialità. Così come la band che lo ha creato. Un altro grande centro dei Cut.
Samuele Conficconi – MusicMap 27/02/2017
Il basso non dovrebbe esserci. E invece c’è.
E non è neppure un basso qualunque. Trattasi del basso di Mike Watt. Ovvero colui che scrisse il brano da cui il terzetto bolognese mutuò il nome quando venti anni fa decise di mettere mano al suo arsenale che, se ai Minutemen non deve granchè, deve invece moltissimo all'”idea” di suono della SST Records, l’etichetta per cui il gruppo di Mike Watt incideva e fondata da Greg Ginn, cui Cut era dedicata.
Dunque il basso c’è, come nei primissimi giorni di vita della band. Ed è un gran bel basso.
E neppure i fiati dovrebbero esserci, se non mi sono perso nulla. E invece ci sono anche loro.
Perché questa è la seconda pelle dei Cut.
Che è coriacea come la prima.
Che i tempi non lo concedono, malgrado il reggaeton e le foto sorridenti dei vostri contatti sui social vogliano illudervi del contrario. E quindi lasciate che le pizze margherite, i cilindretti di sushi e le portate di pesce avariato continuino a fare sfoggio sui loro piatti e voi mettete sul vostro il nuovo disco dei Cut. Sesto di una discografia zoppicante nei tempi ma non nella qualità.
Dodici brani dove succede di incrociare un sacco di facce conosciute negli anni Novanta, dai Constantines agli Hot Snakes, dai Make-Up ai Girls Vs. Boys alla JSBX. Che in mezzo alle mietitrebbia del noise-rock di quegli anni si muovevano lasciando dietro di se una scia di profumo erotico.
Proprio come la musica dei Cut.
Che è rock ‘n roll fumante, ruvido e sempre più trasversale.
Un fusto di quercia che scivolando giù trascina nella sua corsa noise, garage, blues/punk. Etichette che cadono giù come birilli mentre passa la musica dei Cut.
Lys Di Mauro 17/03/2017
“Second Skin” è il 6° album dei bolognesi Cut. E come sempre è un pugno in faccia dopo la scorpacciata di Nutella. Suoni muscolari, liriche profonde come cicatrici che non rimarginano, atmosfere che si fanno spazio nel grigiore della penisola e si proiettano oltre confine, pronte ad abbattere qualsiasi dancefloor emozionale.
Nei 12 pezzi di “Second Skin” c’è davvero tutto, in primis i Cut. Poi la New Wave, il Post Punk, il Glam e pure certe sonorità non da tutti, come quelli di matrice Amphetamine Reptile e dintorni.
Un inno all’alternative rock dei bei tempi, cantato con la modernità di un power trio sempre sul pezzo, pronto ad essere sminuzzato e rigurgitato dal vivo come ultimo test su strada. Troviamo anche tante collaborazioni con amici vecchi e nuovi, per ribadire (come se fosse ancora necessario nel 2017) che la musica è condivisione e non loggia elitaria, e soprattuto il ponte tra Area Pirata con Dischi Bervisti, Bare Bones e Antipop. Insomma una miscela esplosiva fin dalle prime intenzioni, detonata con estrema precisione e dedizione, non ultima all’ascolto attento da praticare con cura ed estrema attenzione.
Può nuocere ai timpani.
Bell’album, gran band, attitudine a pacchi.
Applausi ai kids di Bologna e soprattutto buon 20° compleanno!
Davide Monteverdi – Razzputin Crew Milano 21/03/2017
Sesto album e un quasi-ventennale di carriera per la stimata band bolognese e il suo urticante garage punk venato di blues. A sette anni dall’ultima prova, i Cut tornano alle cronache con lo stesso piglio degli esordi e facendosi accompagnare da una serie di ospiti, tra cui Mike Watt e Stefano Pilia.
Quasi un riepilogo riveduto e corretto delle scorribande del passato, Second Skin è un susseguirsi di brani schietti e rumorosi in cui elementi presi dal noise (e più in generale da certi sussulti indipendenti tipici degli anni Novanta) vengono piegati alle logiche di un punk’n’roll nervoso e ruvido. Le chitarre prendono più di una volta angolature alla Sleater-Kinney o ripercorrono tagli e aperture alla Unwound prima maniera, l’irruenza dei Rocket From The Crypt non si fa sentire solo nell’utilizzo dei fiati che qua e là intensificano l’assalto del gruppo, e alcune progressioni e dissonanze rimandano direttamente ai Sonic Youth più asciutti. Tutti spunti che aiutano il dispiegamento dei rapidi blitzkrieg di un terzetto che riesce a comprimere con estro e mestiere un irrequieto e conciso senso del groove, un persistente afflato blues’n’roll e un’inquieta pensosità che affiora in alcune improvvise decompressioni.
È inutile girarci intorno, i Cut ci hanno sempre saputo fare e quest’ultima aggiunta in discografia, al netto di qualche momento un po’ troppo derivativo, non fa che confermare l’incisività dei tre.
Francesco Caputo – The New Noise 22/03/2017
Nuovo (è il sesto) lavoro per i veterani bolognesi Cut, che festeggiano i vent’anni di valorosa attività “underground”, o, come piace loro farci sapere «dal lato sbagliato della strada». Per l’occasione i tre hanno riunito molti degli storici collaboratori che hanno gravitato intorno alla band nei due decenni passati, tra i quali spiccano il monumento Mike Watt, per i pochissimi che non lo sapessero bassista dei mai abbastanza compianti Minutemen e Francesco Bolognini, primo batterista della band, coinvolgendoli nella scrittura e nell’esecuzione dei dodici brani che compongono l’album. Che è stato prodotto dai Cut stessi e da Bruno Germano, altro collaboratore storico dei nostri, oltre che produttore, tra l’altro, della Fuzz Orchestra e registrato al Vacuum Studio di Bologna.
Il prodotto è d’indubbia qualità: ci muoviamo nel vasto territorio tra il punk, l’hardcore, il noise, il post punk, che la band frequenta con maestria. Compaiono addirittura i fiati, in Shot Dead, Parasite e Holy War, a rendere ancora più potente l’impatto sonoro, che, in ogni caso, non manca certo, nemmeno nei brani in cui la band si presenta da sola, vedasi l’ottima You Kill Me First, dal potente riff, o nella tribale Too Late. Citazioni anche per Automatic Heart (Tacoma Time Travel), nel cui bridge la band omaggia gli amati Sonics, per la dilatata Take It Back To The Start, con le tastiere in evidenza, e per la “title track”, dissonante al punto giusto. Un disco forse non “di moda”, ma il cui ascolto ci riserva momenti assai piacevoli.
Voto: 7/10
Luca Sanna – Distorsioni 14/04/2017
Sesto album in studio in 21 anni di onorata carriera, e mai una delusione. Second Skin arriva a sette anni dal precedente “Annihilation Road” (2010), in mezzo, lo split con i Julie’s Haircut del 2013 e The Battle Of Britain – il live album registrato durante il tour Inglese.
La genesi del nuovo lavoro presenta delle discrepanze con la metodologia passata. Non più una registrazione in presa diretta – con l’idea già bella pronta del disco – ma il raggiungimento di un lavoro coeso mediante svariate session; anche per via del fatto che nel frattempo dalla band è uscito Francesco Bolognini (batteria). Quindi spazio alle idee, ed alle collaborazioni. Del resto, balenava già da tempo nell’aria l’idea di lavorare su un album che prevedesse una presenza massiva di collaborazioni – dal titolo “Cut Must Die“. Da qui, avendo già svariato materiale da parte, i nostri hanno deciso di integrare alcuni pezzi e qualche ospite appartenenti alle registrazioni di Cut Must Die all’interno del nuovo Second Skin: il disco del ventennale.
Nel tempo, gli avvicendamenti e le esperienze live – soprattutto in Inghilterra, anche grazie all’amicizia con i Settlefish -, hanno inevitabilmente aumentato la cifra artistica di una band già di per sé fantastica. Forse anche grazie ai progetti paralleli: basti pensare a quello solista di Ferruccio Quercetti “Ferro Solo”, di cui si avvertono le influenze.
Una copertina scura – che raffigura “Nel Buio”, quadro dell’artista modenese Simone Fazio – e la voglia di fare dannatamente sul serio: alla faccia del sarcasmo da quattro soldi che striscia sulle pagine dei social. La musica per i Cut è importante, è passione e vogliono portarci ad amare i loro dischi nella maniera più naturale: distruggendoli a furia di ascolti, si spera vinilici.
Ferruccio Quercetti (chitarra, voce), Carlo Masu (chitarra, voce), Gaetano Maria di Giacinto (Batteria) mettono in piedi anche questa volta il loro spettacolo pirotecnico d’influenze: che spazia dal Punk fino al Noise, attraversando senza paura (e facendo propri) tutti i rivoli musicali che ci sono nel mezzo. A questo proposito, perde di significato la consueta etichetta Garage-Punk spesso affibbiata distrattamente alla band: i Cut sono molto di più, al netto di quegli ascolti psichedelici di genere – ’60 e Revival Ottanta – che sicuramente sono nelle corde dei nostri.
Ascoltando pezzi come “You Kill Me First” non può non saltare all’orecchio una certa dinamicità Punk sorretta dall’innesto di passaggi alle tastiere degni delle ultime produzioni dei Radio Birdman – ricordate Zeno Beach? Come è facile riconoscere il cammeo in onore dei The Sonics sul finale di Automatic Heart (Tacoma – non a caso – Time Travel). L’oscurità ammanta l’intera “Too Late”, mentre in “Take It Back To The Start” emergono cristalline le tastiere di Andrea Rovacchi dei Julies Haircut. Le complessità spigolose di certo Noise spadroneggiano nella notturna e pericolosissima traccia omonima, placandosi solamente al cospetto delle rive nineties di “The One Who Waits“. Ci sono i ricami degli ultimi Husker Du in “Paralysed” e le chitarre di J.Mascis in “Catch Me Fall“. Se non basta, davvero, è arrivato per voi il momento di riconsiderare il festival di Sanremo. Una delle loro prove migliori.
Alessandro Rossi – Sbrang! 15/11/2017
Tony Face – Blog 20/02/2017
Sesto album (oltre ad uno split e un live) per il trio bolognese.
Esplosivo, travolgente, devastante, dal vivo allo stesso modo che su disco.
In questo ritorno in studio di registrazione propone un sound, come sempre abrasivo, elettrico ma più curato, che conserva le abituali spigolosità ma le avvolge in arrangiamenti meno ruvidi.
La sezione fiati che colora di soul alcuni brani è un tocco geniale e delizioso, un gusto funk che permea molti brani sposta il groove da un approccio direttamente punk e crea un ibrido esaltante.
“Second skin” attinge dalla black music, dal punk, dalle prime espressioni selvagge del rock n roll, cita i Sonics, puzza di New York e di CBGB’s.
Come sempre un grandissimo album che si avvale di una serie di preziosi collaboratori, primo tra tutti Mike Watt ex Minutemen e Stooges.
Ferruccio Quercetti , voce e chitarra della band, risponde ad alcune domande:
Una curiosità.
Vent’anni di attività ma “solo” sei album.
Una scelta o un’imposizione dettata dalla difficoltà di trovare adeguate strutture discografiche
Tra Annihillation Road e Second Skin sono passati quasi 7 anni, ovvero l’arco di tempo in cui molte band si formano, fanno almeno 3 dischi, si sciolgono e magari riescono anche a imbastire una reunion.
Tra A Different Beat e Annihiliation Road invece sono passati “solo” 4 anni, praticamente una sciocchezza.
Tra il 1998 (anno del nostro esordio sulla lunga distanza) e il 2003 – quando è uscito il nostro terzo album Bare Bones – invece siamo stati abbastanza regolari.
Nel caso di Second Skin le cause di questa lunga gestazione, come molte cose di questo mondo, sono allo stesso tempo semplici e molto complesse.
Inoltre come spesso capita ai CUT i nostri piani vengono spesso sconvolti dalle contingenze (se preferisci chiamarle “sfighe” fai pure): in poche parole certe scelte si intersecano con il bisogno di fare necessità virtù fino a che i confini tra le due cose si perdono nella nostra lotta quotidiana per la sopravvivenza di questa band. Uno dei motivi di questo lungo iato discografico è stato certamente l’abbandono del nostro batterista più “longevo” di sempre, Francesco Bolognini, che è stato con noi per 11 anni, tre album in studio e svariate altre uscite.
Francesco ha dovuto lasciare la band pochi mesi dopo la release di Annihilation Road, alla fine di febbraio 2011.
Abbiamo fatto a tempo a registrare l’album Live in UK con lui (The Battle of Britain uscito a ottobre 2011 e poi ci siamo dovuti inventare delle soluzioni che ci hanno consentito di rimanere in pista per quanto riguarda singoli (vedi lo split coi Julie’s Haircut del 2013), concerti e tour, ma che per motivi diversi non erano adatte a un discorso a lungo termine che prevedesse anche la scrittura di un nuovo album.
Tieni conto che i CUT costruiscono i brani in sala prove: la parte musicale di ogni nostro pezzo, tranne in casi rarissimi, è frutto del lavoro di tutti e tre, chiusi nella stessa stanza e intenti a suonare finché non viene fuori qualcosa che ci accontenti tutti.
Questo modus operandi fa sì che la nostra musica rappresenti sempre tutti i componenti della band, in quanto ognuno è coinvolto in egual misura nell’impostazione dei brani.
Probabilmente è anche uno dei motivi per cui alcuni sentono una certa intensità in quello che facciamo: i brani dei CUT nascono sempre dal confronto e a volte da un vero e proprio conflitto di idee e, concedimelo, di passioni.
Si tratta di un processo che però può portare via molto tempo, perché si lavora ai brani solo quando ci si vede per provare: visto che due di noi hanno famiglia e figli e tutti e tre dobbiamo fare altri lavori per sopravvivere non possiamo certo suonare insieme ogni giorno.
Se a questo aggiungi il fatto che spesso dovevamo preparare le scalette dei concerti e che, prima dell’arrivo di Gaetano Di Giacinto, per molto tempo non abbiamo potuto disporre di di un elemento stabile nella formazione del gruppo, capirai perché i tempi si sono allungati ulteriormente anche rispetto ai nostri ritmi abituali. Inoltre, per dirla tutta, non mi pare che il mondo stia col fiato sospeso in attesa di un nostro nuovo album quindi tanto vale uscire solo quando si è totalmente convinti di quello che si sta pubblicando e quando si sente la necessità di comunicare qualcosa attraverso un disco o un album: qualcosa di indefinito, beninteso, ma che sentiamo l’esigenza di continuare a dire altrimenti non saremmo ancora qui.
C’è anche troppa musica in giro, o meglio, c’è la possibilità di poterne ascoltare veramente tanta e in continuazione: in questo contesto ci sentiamo ancora di più in dovere del solito di fare esclusivamente qualcosa che sentiamo come assolutamente necessario, almeno per noi.
Partecipare a questo sottofondo, a questa specie di muzak continuo tanto per farlo e per far presenza ci sembrerebbe piuttosto ingiustificato, ci farebbe sentire a disagio e ci renderebbe complici di un clima culturale che ci piace poco. Non so se questa si può definire una scelta artistica però è sicuramente qualcosa che percepiamo e che influenza il nostro rapporto con gli anni che stiamo vivendo.
Siete, paradossalmente, più seguiti all’estero che in Italia.
E’ corretto ?
Diciamo che dal 2008 andiamo in tour regolarmente in UK e negli ultimi 4 anni abbiamo ripreso a suonare anche in Europa continentale con una certa continuità, dopo alcuni anni caratterizzati da apparizioni molto sporadiche: direi che la Germania, il Belgio e il Nord della Francia sono le nostre zone d’azione privilegiate, ma contiamo di consolidarci presto anche in altre aree.
Il discorso con l’UK è avviato in maniera solida e stabile, in particolare nel nord dell’ Inghilterra e in Scozia.
Tra l’altro una delle etichette che hanno collaborato alla realizzazione di Second Skin è la Antipop di Liverpool, una label che ci distribuisce in UK da molto tempo e che ora ha deciso di aiutarci anche in fase di produzione.
In questo album si sente più che in altri un gusto più marcatamente soul e funk.
Per certi versi quel tipo di influenze sono sempre state presenti nel nostro sound, o perlomeno hanno sempre fatto parte della nostra ispirazione.
I nostri primi tre album mettono in luce questo aspetto, forse ancora di più che dischi quali Annihilation Road e A Different Beat.
In questo senso si può parlare di un ritorno alle origini per quanto riguarda Second Skin, anche se con modalità diverse rispetto al passato.
Amiamo la black music così come le band di rock and roll che incorporano elementi di black music nel loro sound: penso agli MC5, al Bob Seger pre-classic rock, agli Stones di Exile, al primo Joe Jackson, ai Grand Funk, ai primi James Gang, a certe cose dei Replacements del periodo Pleased To Meet Me, ai Saints del secondo album e agli Stooges di Funhouse con quel feeling tra James Brown e Pharoah Sanders. Coniugare l’energia e la disperazione del rock and roll al groove della black music è sempre stata una delle nostre ossessioni: forse la natura “partecipativa” di questo album ci ha consentito di aprire degli spazi nella nostra musica per far riemergere questa nostra tendenza o perlomeno per renderla più facilmente identificabile tra le maglie del nostro suono.
Se poi ti riferisci alla presenza dei fiati in alcuni brani posso dirti che quella era un’altra idea che ci frullava nella testa da tempo e che con questo album siamo riusciti finalmente a realizzare: in realtà c’è una tromba in un brano di Bare Bones e anche per la title track di Annihilation Road abbiamo carezzato l’idea, poi abbandonata per mancanza di tempo, di buttare dentro una sezioni fiati stile Saints, Rocket From The Crypt o Stones periodo Sticky Fingers/Exile on Main St. Originariamente io avevo pensato ai fiati solo per un pezzo di Second Skin che si chiama Parasite.
E’ stato Bruno Germano, sound engineer e produttore del disco presso il Vacuum studio di Bologna, a proporli anche per altri due brani: il lavoro di Bruno su questo disco è stato essenziale per quanto riguarda le scelte di ripresa, missaggio, produzione e arrangiamento. Bruno è presente anche in veste di musicista e coautore nella title track, che è stata sviluppata partendo da due suoi riff di chitarra.
Immaginandovi con una pila di dischi che hanno influenzato direttamente questo album, quali sarebbero i titoli ?
Crediamo che la musica non sia influenzata solo da altra musica, ma anche da quello che succede nella vita di ciascuno di noi, dai posti in cui viviamo, da altre forme d’arte e da mille cose che confluiscono per lo più inconsapevolmente in quello che fai attraverso lo strumento espressivo che hai scelto.
Detto questo non so se questi album hanno influenzato Second Skin, ma si tratta certamente di dischi che ho ascoltato molto negli ultimi tempi:
Curtis Mayfield Curtis
The Sound Jeopardy e Shock of Daylight EP
Gun Club Las Vegas Story
Minutemen Double Nickels on the Dime
Alain Toussaint From A Whisper to a Scream
NEU! NEU 75
A Tribe Called Quest We Got it From Here
The Gories I Know you’re Fine but…
Grinderman (entrambi gli album)
Jesus Lizard Liar
Girl Against Boys Venus Luxure n. 1 Baby
Ruts DC Animal Now
Alice Coltrane Journey in Satchidananda
The Saints Eternally Yours
Alley Cats Escape From Planet Heart
Dr. John Gris Gris
Gil Scott Heron Pieces of a Man
Rocky Erickson Rocky Erickson & The Aliens
Flesh Eaters A Minute to Pray, a Second to Die